JUDO E SOCIETÁ 3

Siamo giunti al terzo appuntamento della rubrica del mercoledi’ sera “JUDO E SOCIETÁ” curata dal prof. Giuseppe Tribuzio, sociologo dell’Educazione. Buona lettura! EDUCAZIONE MORALE E ALL’AUTOCONTROLLO: DA DURKHEIM A KANO Un apporto significativo all’analisi delle problematiche sociali, connesse all’educazione, sin dai primi anni del ‘900 è stato fornito dagli studi di Emile Durkheim, che [...]
Siamo giunti al terzo appuntamento della rubrica del mercoledi’ sera “JUDO E SOCIETÁ” curata dal prof. Giuseppe Tribuzio, sociologo dell’Educazione. Buona lettura!
EDUCAZIONE MORALE E ALL’AUTOCONTROLLO: DA DURKHEIM A KANO
Un apporto significativo all’analisi delle problematiche sociali, connesse all’educazione, sin dai primi anni del ‘900 è stato fornito dagli studi di Emile Durkheim, che resta ancora oggi a distanza di un secolo, un fonte ispirativa di notevole valore. Il padre della sociologia francese prese molto a cuore l’educazione morale delle nuove generazioni, convinto che solo attraverso di essa si potesse costruire quella coscienza collettiva in grado di unire una società tendenzialmente incline alla disgregazione, a causa dei forti mutamenti sociali in atto.
Il pensiero sociologico durkhemiano si nutre perciò un’approfondita conoscenza pedagogica, da utilizzare sia in senso critico che costruttivo. Durkheim ci offre il suo punto di vista in modo chiaro e finalizzato quando afferma che «la pedagogia non è una scienza, non è nemmeno un’arte. L’arte, infatti, è fatta di consuetudini, di pratiche, di abilità organizzata. L’arte dell’educazione non è la pedagogia, ma la capacità dell’educatore, l’esperienza pratica del maestro».[1] È evidente come, secondo il sociologo francese, sia possibile essere buoni insegnanti senza essere a conoscenza del sapere pedagogico, come sia possibile anche essere pedagogisti, senza avere alcuna abilità pratica di insegnamento.
Oseremmo dire, estremizzando, che si può essere pedagogisti senza essere mai stati in un’aula, senza aver mai avuto esperienza di insegnamento con alunni. È questa la realtà che riguarda una larga schiera di pedagogisti che dopo aver frequentato le aule universitarie come studenti, sono rimasti lì a proseguire la loro carriera come docenti, a concepire teorie, stili e modelli pedagogici, che poco avevano a che vedere con la realtà sociale che stava trasformandosi.
È ancora possibile formare gli educatori in questo modo senza prevedere delle discrasie educative?
L’educazione morale alla quale si riferisce Durkheim pone l’individuo nella condizione di vivere un’esistenza regolare perché «Il dovere è regolare; esso ritorna sempre uguale, uniforme, anche monotono. I doveri – dice Durkheim – non consistono in azioni brillanti, compiute in rari momenti di crisi intermittenti. I doveri sono quotidiani e il corso della vita li ripropone periodicamente. Chi ha il gusto del cambiamento e della varietà fino al punto di aborrire ogni uniformità corre il rischio di essere moralmente incompleto»[2]. Ebbene, per il sociologo francese, dal senso della regolarità e da quello dell’autorità scaturisce lo spirito di disciplina che, pur riconoscendo il suo segnare un limite all’attività dell’uomo, il suo essere qualcosa di violento perché in grado di violare la natura delle cose, è necessaria proprio per evitare che le persone incontrandosi possano scontrarsi. L’uomo, perciò, necessita di “paletti”, perché senza alcun limite, senza freni inibitori è condannato ad espandere i suoi appetiti all’infinito con il rischio di alimentare comportamenti devianti.
L’autocontrollo diventa una necessità da proporre come stile di vita, ma anche un tema centrale nell’analisi sociologica. Infatti gran parte delle riflessioni che vengono esposte nelle opere di autori come Cooley, Mead, Durkheim, Freud possono essere ricondotte al presente quesito: “perché un essere umano potenzialmente antisociale diventa in grado di riconoscere un senso del limite, della misura, del dovere?” La risposta che la scienza sociale cerca di fornire si impernia sul processo di socializzazione inteso come processo di apprendimento delle regole, sanzioni e gratificazioni che sono caratteristiche di gruppi e ruoli specifici.
Il mondo classico, verso il quale siamo sempre debitori, a questo proposito aveva sviluppato una pedagogia che poneva molta enfasi nell’educazione all’autocontrollo. Il dominio di se stessi, dei propri impulsi, delle proprie emozioni, dei propri comportamenti, movimenti e sguardi nella cultura romana sono minutamente regolati in ogni momento della vita quotidiana.[3]
Un esempio di questa concezione del vivere viene magistralmente proposto da Cicerone nel suo De officiis quando, in una lettera indirizzata al figlio che vive e studia in Grecia, scrive «[…] lo stare e l’andare, il modo di star a tavola, il volto, lo sguardo, il gesto conservino il più dignitoso decoro. In queste cose dobbiamo soprattutto guardarci da due difetti: da una effeminata mollezza e da una scontrosa villania. […] anche nel camminare ci vuole misura: quando si va a diporto, non si tenga un passo troppo lento e molle, come di chi va in processione, e quando si ha fretta, non si prenda la corsa, perché il respiro diventa affannoso, il volto si altera e la bocca si storce: segni evidenti che non c’è fermezza di carattere. […] Un giusto e sapiente precetto vuole che noi, in ogni momento della vita, fuggiamo i turbamenti dell’animo, cioè quei moti della vita che si ribellano alla ragione. […] Nell’intraprendere un’azione, qualunque sia, bisogna osservare costantemente […] che il sentimento obbedisca alla ragione (e questo è il miglior modo per adempiere i nostri doveri»[4]. Lord Chesterfield, in epoca diversa, mostra l’identico interesse per lo stesso tipo di educazione, quando scrivendo al figlio, gli ricorda che «Benché possa apparire ridicolo dirlo, è tuttavia importante tu sappia che oggi come oggi l’uomo che per te più conta in tutta Europa è il tuo maestro di danza. Ballare ben vuol dire stare altrettanto bene seduti o in piedi, è così camminare: tutte cose che dovrai apprendere se vorrai piacere».[5] Più oltre Chesterfield insiste nel consigliare al figlio di curare e controllare la gestualità delle braccia perché convinto che «da esse, infatti, più che da qualsiasi altra parte del corpo, si giudica della distinzione o meno di una persona. La torsione o la rigidezza di un polso sono sufficienti a far apparire goffo chiunque».[6] Il controllo del corpo e del suo linguaggio diventa così un segno che contraddistinguere un nobile gentleman dal resto della gente.
L’ideatore del Judo, Jigoro Kodokan, prof. Jigoro Kano, agli inizi del ‘900 scrive ai suoi allievi qualcosa di molto simile a quanto già citato di Cicerone: «Uno dei comportamenti che influiscono sulla grazia e l’eleganza è anche il fatto di sapersi muovere: la celerità può essere apprezzata nei casi di lavoro e nel camminare; si preferisce invece un movimento composto e calmo se si tratta di movimenti come alzarsi in piedi e sedersi, oppure aprire la porta, o prendere oggetti in mano».[7] Kano e il suo Judo si inseriscono degnamente in un filone di pensiero, tutto moderno,che promuove un nuovo modello di persona: colta, responsabile, pronta a saper cogliere le opportunità, disponibile verso gli altri nel rispetto reciproco.
Il Judo, come anche il rito della cerimonia del thè, i movimenti che precedono il tiro con l’arco, le elaborate forme rituali della pratica zen, la pratica delle arti marziali, tutte nel loro insieme, non fanno altro che educare l’individuo al controllo di sé in ogni situazione, perché attraverso la perfezione del gesto, dal punto di vista tecnico ed estetico, possa emergere la massima espressione del proprio essere.
Continua…
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JUDO E SOCIETÁ – Presentazione
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[1] E. DURKHEIM, Il suicidio – L’educazione morale, Utet,Torino 2008, p.465
[2]Ibidem, pp. 493-494.
[3] Cfr. R. FRASCA, Educazione e formazione a Roma. Storia, testi, immagini. Dedalo, Roma 1996
[4] M. CICERONE, De Officiis, 1, XXXV-XXXVI-XXXIX.
[5] L. CHESTERFIELD, Lettere al figlio, Adelphi, Milano 2001, p.141.
[6] Ibidem, p. 147.
[7] J. KANO, Fondamenti del Judo, Luni Editrice, Milano 1997, pp.148-149.
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